Dopo la nuova spinta della Consulta, sul fine vita il bicchiere è pieno solo a metà

DOPO LA NUOVA SPINTA DELLA CONSULTA,
SUL FINE VITA IL BICCHIERE È PIENO SOLO A METÀ

La Corte da una parte ha confermato la legittimità del requisito del “sostegno vitale”,
dall’altra ne ha esteso l’interpretazione. Ma questo limite resta un unicum nel mondo

Articolo di Mario Riccio* su Il Dubbio –  23 luglio, 2024

Per commentare – come medico pratico impegnato da decenni sul tema – la nuova recente sentenza della Corte Costituzionale, la 135/24 sul fine vita, è inevitabile il ricorso alla metafora del bicchiere, contemporaneamente mezzo pieno e mezzo vuoto. La parte mezza vuota. Il giudice di Firenze nel rimettere alla Consulta un quesito circa il processo in corso che vede imputati tre “disubbidienti” dell’associazione Luca Coscioni, tra cui Marco Cappato, che hanno accompagnato un nostro cittadino in Svizzera per porre fine alla propria vita, sostanzialmente poneva dubbi sulla costituzionalità del noto criterio del “tenuto in vita da forme di sostegno vitale” indicato come necessario, nella precedente sentenza della Consulta 242/19, nota come DJFabo/Cappato, per il richiedente l’assistenza al suicidio. Per abolirlo la Corte Costituzionale avrebbe dovuto sostanzialmente demolire una parte fondamentale dell’impianto del suo precedente giudizio. Così, ovviamente, non è stato.

La Consulta ha confermato la costituzionalità di tale criterio. Un limite che rimane comunque un unicum rispetto alle leggi che in alcuni paesi del mondo occidentale regolano ormai l’accesso alla morte medicalmente assistita. La maggioranza dei richiedenti, in detti paesi, sono pazienti oncologici che sono peraltro privi di tale requisito. Il lettore esperto di diritto, in proposito, potrà giustamente eccepire che la Consulta non emana le leggi, ma è preposta solo a valutare, in taluni casi, la costituzionalità di quelle che il legislatore produce. La Consulta non ha affrontato, ancora una volta, un’altra questione delicata, di evidente rilevanza giuridica oltreché etico-deontologica. Cosa fare nel caso che un richiedente abbia tutti i requisiti per il suicidio assistito ma non sia in grado, per la sua condizione clinica, di assumere o iniettarsi autonomamente il farmaco per darsi la morte? Non è forse anche questa una forma di disuguaglianza nella fruizione dei diritti?

La parte del bicchiere mezza piena. All’esito della precedente sentenza della Corte Costituzionale, la 242, vi sono state varie interpretazioni della già menzionata definizione di “forme di sostegno vitale”, questione centrale della sentenza stessa. L’interpretazione prevalente è stata quella che possiamo definire mediatico-giornalistica. Si intendeva cioè legata alla sola presenza di terapie come la ventilazione meccanica o la nutrizione artificiale. È evidente appunto in questo l’influenza mediatica dei due precedenti casi più noti: Welby ed Englaro.

Da sottolineare che nel solco di questa semplicistica interpretazione si sono allineati in questi anni eminenti giuristi ed esperti della materia del fine vita in generale. Forse l’esempio più paradigmatico è il recente parere emesso, pur a maggioranza, dai saggi del Comitato Nazionale per la bioetica, sul quale abbiamo già espresso una personale modesta opinione su queste stesse pagine. Senza dimenticare che la stessa Avvocatura dello Stato si era posta, nel dibattimento in questione, nel solco di una posizione analoga. La Corte Costituzionale in questa sentenza ha invece chiarito i termini della sua stessa definizione di “forme di sostegno vitale”, dandone una interpretazione estensiva.

Piace qui ricordare che la Consulta ha richiamato il contenuto della sentenza di assoluzione del tribunale di Massa del luglio 2020 che ha visto impegnata l’associazione Luca Coscioni nella difesa di Marco Cappato e Mina Welby che avevano accompagnato Davide Trentini in Svizzera. In quella occasione fu argomentata, sulla base di alcune evidenze cliniche, l’estensione del concetto di trattamento di sostegno vitale. Ed ancora altre condizioni cliniche furono sostenute con successo davanti al Tribunale di Ancona nel caso della prima assistenza al suicidio in Italia (Mario/Federico giugno 2022). Poi ancora nei successivi casi, ampiamente noti, di Treviso e Trieste, sempre tutti sostenuti dalla associazione Coscioni.

Addirittura la Consulta nella sentenza ha ritenuto opportuno anche menzionare – specificando che erano a titolo esemplificativo e non esaustivo – tali condizioni: la necessità dell’evacuazione manuale dell’intestino, quella del catetere urinario e quella della aspirazione delle secrezioni bronchiali (paragrafo 8 della sentenza). Condizioni cliniche tutte presenti nei casi sopra riportati e già riconosciute dalla magistratura ordinaria, nei vari gradi di giudizio, quali forme di sostegno vitale.

Ed ancora, i Giudici delle leggi hanno chiarito l’equivalenza giuridica tra il diritto ad interrompere un trattamento sanitario – ancorché ritenuto sostegno vitale – già in atto e quello di rifiutare di intraprenderlo. Solo per evitare di trovarsi nella “paradossale (ipotesi, ndr) che il paziente debba accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale solo per interromperli quanto prima, essendo la sua volontà quella di accedere al suicidio assistito”(ultimi due capoversi del paragrafo 7.2).

Ed in ultimo, la Consulta torna ad invitare il legislatore ad occuparsi della materia in modo organico e complessivo. Ma il timore di chi scrive è che l’attuale composizione parlamentare, considerati entrambi gli schieramenti, possa solo peggiorare le cose per chi si trova alla fine della propria vita nel nostro paese. Con un inevitabile ritorno a richiedere l’ennesimo giudizio della Corte Costituzionale.

*medico, Consulta di Bioetica, Associazione Luca Coscioni

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